Cristina Comencini: I gioielli di Dharamsala
Ecco quanto scrive Cristina Comencini sul libro I gioielli di Dharamsala, di Enrica Baldi, che l’autrice dedica alla sua lunga e avvincente esperienza di educatrice con i bambini della diaspora tibetana a Dharamsala, in India.
“In questo libro di Enrica Baldi sulle sue esperienze di educatrice terapeuta tra i bambini di Dharamsala, non ci sono casi generali, regole e teorie, ma l’osservazione amorosa e razionale di singoli bambini, piccoli individui, che vivono in un villaggio nato per accoglierli ed educarli. Bambini che hanno conosciuto fughe lunghe e impervie dal loro paese, il Tibet, attraversato ghiacciai, visto morire compagni di viaggio, lasciato famiglie che hanno preferito privarsene pur di assicurare loro un’identità spirituale, culturale e un futuro.
Enrica conosce bene il buddhismo e la storia del Tibet e ha studiato a lungo psichiatria e psicanalisi infantile (Bruno Bettelheim è il più amato e citato, insieme a Maria Montessori). Si è laureata in filosofia, ma ha poi praticato soprattutto l’arte, il teatro (con attori di Peter Brook), la poesia. Ma di tutto questo bagaglio non fa sfoggio. Anzi, all’arrivo al Villaggio, dopo un viaggio lungo ed estenuante, lascia i pesi della sua cultura personale e si avvicina ai bambini con la mente e il cuore liberi. Alla fine del libro, traccia ovviamente delle linee preziose per gli interventi di recupero di bambini profondamente traumatizzati, ma lo fa dopo avere sperimentato con loro un’idea secondo me rivoluzionaria.
In cosa consiste? Un’idea semplice, eppure non conosco nessuno che l’abbia avuta né praticata: servirsi sistematicamente dell’arte grande come cura. Uso proprio l’espressione arte grande perché Enrica utilizza per i suoi laboratori i testi più alti e indiscussi della storia della creatività occidentale. Mette in mano ai suoi bambini e ragazzi autori che nessuno di noi penserebbe adatti, come Dante, Leopardi, Petrarca, Sofocle e infine, certo, anche Collodi. L’idea di Enrica è basata su una scoperta individuale che chi scrive conosce bene. Alla base di ogni racconto c’è la gioia, anche nei testi più tragici, nelle storie di dolore senza fine, c’è la gioia di chi raccontandoli riesce ad attraversarli e a uscirne. Nel racconto, come nel sogno, il dolore non ha connotazione buona o cattiva, non segna, non macchia, è la vita, con tutta la sua ricchezza di esperienze positive e negative. Questa stessa gioia è all’inizio di ogni vita umana, anche la più disgraziata. Molto significativo l’esempio, ripreso da una notizia di cronaca, della bambina italiana uccisa dal compagno della madre, che nelle fotografie sui giornali ride. L’arte e l’infanzia hanno in comune questa stessa scintilla di gioia iniziale che riguarda la vita. I bambini sono prima di tutto felici d’essere al mondo, per questo è insopportabile vederli soffrire.
Enrica mette in scena Pinocchio con bambini tibetani intorno ai dieci anni, un’impresa titanica. Dirigere attori adulti è già estenuante, figuriamoci con bambini che odiano l’immobilità, sopportano la scuola ogni giorno, non vedono l’ora di giocare. Attraverso un metodo sperimentato con gli attori di Peter Brook, Enrica riesce a coordinare scene create dai piccoli sui testi, vaglia i loro contributi, li stimola a inventare, fa venir fuori attraverso le loro creazioni ricordi dimenticati, sofferenze taciute.
La parte più bella del libro è proprio il diario delle prove: giorni in cui tutto è perfetto, altri in cui le dinamiche del gruppo sembrano distruggere il lavoro fatto, pianti liberatori, consolazioni, baci, confronti, giochi sfrenati impossibili da domare, acquisto dei costumi, gelosie, inviti a pranzo (il mangiare insieme come elemento fondamentale dell’affetto che lega Enrica ai suoi piccoli). Da queste pagine saltano fuori indimenticabili personaggi di bambini.
Norbu (che vuol dire “gioiello” in tibetano) a cui la nostra autrice non sa negare nulla: “Mi chiede cose che nessuno dei bambini di qui mi ha mai chiesto, e sono richieste così precise e urgenti che io gliele concedo”. Il piccolo gioiello va in giro tutto sporco, inventa storie, dice bugie, chiede baci, vuole sempre mangiare i momo (ravioli), è un perfetto Pinocchio, ma poi basta una nevicata e si trasforma in un Lucignolo imprendibile che vuole giocare a palle di neve ed essere lasciato in pace.
La tredicenne Paldon, la più grande del gruppo, apatica e assente, che viene invitata a non venire più inutilmente alle prove e allora scoppia a piangere ed Enrica si scusa con lei (bello il pezzo delle scuse dovute ai bambini) e diventa una smagliante Regina del paese dei balocchi, e sceglie per il suo personaggio le scarpe bianche che ha visto in sogno.
Penpa Dolma piccola, che si ricorda tutto ed è sempre sorridente, e racconta con la stessa grazia di quando recita che quando lei è nata sua madre è morta, il padre l’ha visto una sola volta (fa uno con le dita e le viene da piangere quando recita la scena di Geppetto che scompare nei flutti) e ha attraversato a quattro anni i ghiacciai dell’Himalaya con una guida sconosciuta.
E Choedak, il più fantasioso di tutti, capace di mimare un ruscello, e poi l’acqua con cui innaffia il suo cappello come fosse un vaso di fiori, ed è talmente credibile che quando se lo rimette tutti pensano per un attimo che si sia rovesciato il vaso pieno di terra in testa. Choedak saluta tutti e dice che va in vacanza in Tibet e poi si scopre che ha riattraversato le montagne con le scarpe di nylon perché i cinesi hanno minacciato lo zio.
Storie concrete, struggenti eppure piene di speranza, che mi hanno ricordato l’inchiesta sull’infanzia girata da Luigi Comencini. Stessa capacità di afferrare la mente e il cuore dei più piccoli, di trattarli da eguali, rispettarli e fare uscire dai loro bisogni insegnamenti per noi che li guardiamo e li educhiamo senza capirli.
Come ha fatto mio padre, Enrica resta in contatto con i bambini con cui ha lavorato, diventano grandi, vanno in giro per il mondo, le scrivono cosa studiano, che si sono sposati, descrivono la loro vita, sono le manifestazioni viventi della riuscita di chi se ne è occupato.
Tranne Norbu. Dov’è il Pinocchio meraviglioso che era in lui, si chiede Enrica incontrandolo ragazzo. Cosa l’ha fatto diventare chiuso, taciturno, passivo?
E pensiamo alla prima frase che le aveva detto appena si erano conosciuti al Villaggio, quando aveva probabilmente chiesto a qualcuno di insegnargli le parole, perché non sapeva l’inglese, e poi le aveva imparate a memoria per riuscire a dire a lei: “I am very sad today”.
Quanto lavoro ancora da fare per riuscire ad attraversare tutta la tristezza degli innumerevoli gioielli sparsi per il mondo!
Cristina Comencini, scrittrice, regista e drammaturga