Piermario Morosini: un bambino grande

La vita gli aveva regalato quasi niente. La morte si è presa tutto. A nemmeno 26 anni – li avrebbe compiuti il 5 luglio – Piermario Morosini aveva imparato a convivere con così tanto dolore che fa fatica anche a immaginarlo. A quattordici anni un brutto male aveva portato via suo padre Aldo, due anni dopo la madre Camilla. Gli erano rimasti un fratello e una sorella più grandi, entrambi disabili gravi. Il primo si è suicidato pochi anni fa, la sorella è ricoverata da sempre in un istituto. C’era zia Miranda a occuparsi di lui, che oggi se fosse ancora viva avrebbe più di novant’anni. Eppure, con tutto questo dolore che avrebbe schiantato chiunque, Piermario Morosini si era aggrappato all’esistenza come pochi. «Spesso mi sono chiesto perché sia capitato tutto a me, ma non riesco mai a trovare una risposta e questo mi fa ancora più male. Però la vita va avanti», si era confidato sette anni fa con un amico giornalista del «Guerin Sportivo», l’anno in cui era passato dalla giovanile dell’Atalanta all’Udinese, l’anno in cui aveva iniziato a mettere le ali ai piedi.

I primi calci li aveva tirati sul campetto del Monterosso, a Bergamo dove ogni tanto tornava. Ma erano più le volte in cui Anna, Anna Vavassori, la sua fidanzata, volava a Livorno da lui con il cagnolino Whisky. Anna che su «Twitter» mette le foto dell’ultima gita all’Elba e un messaggio da ragazzina: «Magia complicità occhi luce felicità incontri futuro meraviglia splendido amore». Anna senza più futuro, che gioca a volley nel Valpala in serie C e che invece di essere a Paladina per la partita con il Bodio Lomnago corre in macchina fino a Pescara in ospedale. Dove finisce la carriera e la vita di quel mediano che galoppava come un matto e che aveva fatto accendere una lampadina ai talent scout dell’Atalanta. «Era un ragazzo intelligente, uno che aveva stoffa anche se sul suo volto c’era sempre un velo di tristezza», lo ricorda Mino Favini, il preparatore dei giovanissimi nerazzurri che lo ha seguito per anni.

Ma Piermario Morosini poteva permettersi di sbagliare niente. «Ci tengo a prendere il diploma di ragioniere, è tutto sulle mie spalle…», si era confidato con i pochissimi amici. Daniele Martinelli, che ha giocato con lui due anni nel Vicenza fino al 2009, al telefonino fa fatica a non piangere: «Sembra retorico ma era davvero un ragazzo d’oro. Sapevamo tutti delle tragedie della sua vita, ma non ne parlava mai». C’è chi si ricorda che dall’Atalanta se ne era andato presto, con tutto quello che gli era capitato nella vita non poteva permettersi di perdere troppo tempo. Eppure non c’è squadra dove abbia giocato anche per poco – dall’Udinese al Bologna, dal Vicenza alla Reggina, dal Padova al Livorno, la sua ultima maglia – dove Piermario Morosini non abbia lasciato un ricordo solare malgrado tutto.  (…) Lui era fatto così, sembrava sempre contento, e pare un paradosso con tutto quello che gli era capitato nella vita. Perché nella sua giovane esistenza lui immaginava che il meglio sarebbe dovuto ancora arrivare. E in quella intervista al «Guerin Sportivo» lo aveva pure detto, e si capisce che era una speranza di vita più che un sogno da calciatore: «All’Udinese vado senza troppe pretese, non posso pretendere di giocare subito, ma so che il tempo è dalla mia parte e che dando il massimo mi potrò togliere delle soddisfazioni».







“Morosini, una vita di tragedie.
 Ma era sempre ottimista”, Fabio Poletti, La Stampa, 15 aprile 2012

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