Festa del papà: mio padre era solo un ragazzo
Il 2 aprile 1944, domenica delle palme, mio padre, un giovane sottotenente della classe del ’21, reduce dalla Slovenia, miracolosamente fuggito ai tedeschi che lo stavano deportando in Germania, si trovava a Cossignano, un paesino dell’Ascolano, dove era riuscito a ricongiungersi a suo padre, sfollato da Roma. Non credeva nella guerra, era stato educato dal padre agli ideali repubblicani, ma aveva fatto fino all’ultimo il proprio dovere. Dopo l’8 settembre si era trovato, fuggiti gli ufficiali con la cassa del reggimento, a dover amministrare il destino di una truppa molto più adulta di lui, che non aveva ancora 22 anni. Fece dare agli uomini abiti borghesi presi dai pacchi di alcune reclute e distribuì i pochi soldi che c’erano, tra cui la sua paga, poi si abbracciarono tutti e augurandosi buona fortuna presero la strada di casa. Camminava di notte, di giorno stava nascosto per timore dei tedeschi, ma anche dei partigiani iugoslavi; mangiava quello che trovava, la fame e la fatica erano tante ma anche la voglia di tornare a casa e sapere cosa stava succedendo alla Patria, alla famiglia, agli amici. Nonostante le accortezze venne preso dai tedeschi, incolonnato e avviato ai campi di concentramento. A Trieste, con la complicità di alcune donne che lo coprono mentre beve a una fontanella, riesce a scappare. I tedeschi se ne accorgono, altri tentano la fuga, partono raffiche di mitra che colpiscono alcuni fuggitivi ma non Luigi, mio padre, che salta il muro di un giardino e si nasconde lì fino al giorno dopo, quando trova il coraggio di chiedere aiuto agli abitanti della casa. Viene nutrito, riceve un paio di scarpe diverse dalle sue, troppo riconoscibili perché militari, e riparte, sempre a piedi, per raggiungere il padre. La mamma l’ha persa da bambino, non ha fratelli, non ha zii, nessuno, ha solo quel padre, che lo adora ma che spesso è anche irragionevolmente irascibile, e una matrigna che gli ha fatto considerare il fronte preferibile alla casa.
Raggiunto, chissà come, il paese dell’ascolano, Luigi si rende conto che lì, a casa, la guerra è più dura che mai perché imperversano l’arbitraria violenza dei repubblichini della X Mas di Giunio Valerio Borghese, con base a Marino del Tronto, e la vessazione dell’ex alleato tedesco. In quei mesi cresce in mio padre, come in tanti altri giovani, la ribellione, la consapevolezza che la vita e la dignità umane non possano essere calpestate ancora a lungo, che credere in un’esistenza migliore e di libertà è l’unico modo per accettare che tanto strazio possa accadere. Per questo quella domenica delle palme, quando due militari della X Mas, in ottemperanza al bando firmato da Giorgio Almirante, procedettero all’ennesimo arresto di due giovani della classe 1925 per fucilarli in serata come traditori, mio padre, ribellandosi davanti allo strazio delle loro madri, armato solo di una rabbia che non è ancora coraggio, si mise davanti ai repubblichini ricordandogli fieramente che non era quello il loro dovere di soldati. Uno di loro fece allora il gesto di colpirlo, ma mio padre schivò il pugno. Subito dopo un altro, imbracciato il fucile, gli sparava alle spalle trapassandolo da parte a parte. Il giovane Luigi cadeva in un lago di sangue e il mio povero nonno, che era presente, impazzito di rabbia si gettava sul militare mentre il suo collega prendeva a calci il corpo di mio padre. Lo lasciarono così, come un animale abbattuto, confidando che se non era morto, presto lo sarebbe stato.
Ma papà non morì. Fu un miracolo. Forse la sua mamma, che lui ha sempre sentito accanto, lo protesse. Restò per più di due mesi in pericolo di vita, ma ce la fece. Il paese chiedeva notizie, seguiva la lotta di quel giovane coraggioso che aveva detto quello che nessuno aveva avuto il coraggio di dire; che, unico, si era opposto a chi incuteva e spargeva terrore. Poi, quando fu possibile la guarigione, quando cresceva la speranza, ecco la delazione. Qualcuno fece sapere a chi di dovere che Luigi Ghidoli non era morto, dunque bisognava finire il lavoro iniziato. I carabinieri si presentarono a prelevare il ferito, ma non era trasportabile e il medico condotto del paese si oppose all’arresto. E, poiché è disdicevole che un condannato muoia prima della sua esecuzione, a mio padre fu permesso guarire. Gli fu però fatto sapere che se non si fosse presentato quanto prima al comando della G.N.R. in Ascoli, sarebbe stata compiuta una rappresaglia sul paese e il giovane Luigi, appena poté reggersi in piedi, si presentò. Era ancora molto debole e fu visitato da un medico militare che consigliò di rilasciarlo per consentirgli di portare a termine la guarigione; ma, mentre usciva dall’ospedale, fu arrestato dagli stessi due militi che lo avevano ferito, e che lo portarono nel carcere giudiziario di Forte Malatesta in Ascoli Piceno. Lì gli fu comunicato che era stato condannato a morte, senza alcun processo. L’ordine di esecuzione della Feldgendarmerie, scritto in italiano e in tedesco, fu mostrato al giovane dal direttore del carcere, che comunicò alla famiglia di non poter far altro se non concedere due giorni di tempo al condannato. Ghidoli fu messo nella cella che già era stata di Fausto Simonetti (medaglia d’oro alla memoria), prelevato dal carcere poco tempo prima e massacrato personalmente dai repubblichini, poiché la sentenza di morte tardava a essere eseguita. Mio padre lo sapeva, e sapeva che o fucilato dai tedeschi o massacrato dai fascisti, ucciso lo sarebbe stato di certo; aspettava solo la certezza del quando e del come. Uno dei suoi feritori provò più volte e in tutti i modi a farsi consegnare il giovane, ma il direttore del carcere non volle ripetere l’esperienza di Simonetti, e la notte invocava il regolamento carcerario che vieta di far uscire o entrare detenuti tra il tramonto e l’alba; il giorno riusciva a prendere tempo grazie anche all’aiuto del capo carceriere, che faceva spostare di cella Ghidoli.
Gli eventi, intanto, rapidamente precipitano: i fascisti fuggono da Ascoli dopo aver svaligiato la filiale della Banca d’Italia; l’VIII armata inglese che ha sfondato la linea Gustav in Abruzzo, è vicina; i tedeschi, in rotta, si ritirano disordinatamente uccidendo e razziando bestiame e … biciclette. Con i tedeschi ancora dentro Ascoli, i politici di Forte Malatesta vengono fortunosamente messi in libertà; tra questi, mio padre. Come membro del C.L.N. di Ascoli occupa con pochi compagni (“quattro gatti praticamente senza armi né ordini precisi”, diceva lui) la sede del Comune deve erano anche la Casa del fascio e la Prefettura. Alcuni giorni dopo una pattuglia di una ventina di paracadutisti della Nembo entrava nella città, i cui antichi ponti sul Tronto e sul Castellano erano stati fatti saltare dai guastatori tedeschi in ritirata.
Per mio padre e per tanti altri giovani della sua età cominciava così un’altra avventura: costruirsi un futuro. E il 2 agosto 1946, avendo sostenuto tutti gli esami in un solo anno, riesce a laurearsi in Giurisprudenza. Supera subito anche le prove di procuratore legale e si mette alla ricerca di un impiego, uno qualunque che gli permetta di sposarsi presto con quella che sarà l’amatissima compagna di tutta vita. Nel 1947, pur avendo da poco perso tragicamente anche il padre, si sposa, poiché ha trovato il sospirato impiego: avventizio di III categoria al Catasto! Poi arrivano i figli, i mutui, lo stringere dignitoso della cinghia dell’onesto funzionario statale: ormai è direttivo e poi dirigente alle Finanze e potrebbe “farsi d’oro…” come qualcuno gli dice, ma il giovane Luigi pieno di ideali è sempre lì e rimanda indietro perfino i panettoni a Natale, quei panettoni che noi bambini non avevamo mai visto così grandi. Tante speranze prima, poi sempre più delusioni. Unica certezza la famiglia, l’amore sconfinato per la sua compagna e i figli che ora colmano un vuoto lacerante di dolore e solitudine che parte dall’infanzia. E poi la pittura, la poesia, il mare con i suoi amici pescatori, la campagna, la vigna, Cossignano, dove adesso riposa.
Mio padre mi ha insegnato a perdonare ma anche a ricordare. Ricordare è un dovere, ma si può farlo senza odiare. Se non si prova odio non è necessario mentire od omettere. A casa di mia madre c’è ancora la povera giacca che lui indossava quel 2 aprile del ’44 e che fu rattoppata nei fori dei proiettili per poter continuare ad usarla. Ricordo che la indossava mentre dipingeva e io lo guardavo, seduta sotto il cavalletto, e cercavo nella stoffa quei buchi che avevo visto tante volte nella sua carne. Avrebbe potuto insegnarmi a odiare. Anzi, mi ha più volte detto che l’unica cosa che può essere più forte addirittura della stupidità è l’amore. Però ricordare è un dovere, è un modo per capire, per dare una ragione a tante morti, a tanto dolore e la speranza che questo non possa più accadere. Mio padre e mia madre ci dicevano spesso che alla loro generazione era stata strappata la giovinezza, una ferita che per molti di quelli ancora in vita è indelebile e dolente e questo non deve più ripetersi, mai più.
Vorrei dire un’ultima cosa per far capire come l’amore, la solidarietà possano comunque vincere in un animo buono anche nelle condizioni più difficili e disperate.
Nel carcere di Ascoli, mio padre non era solo ad aspettare la morte, c’era anche un disertore tedesco che doveva essere fucilato. Correva di cella in cella la voce che fosse un pover’uomo già di una certa età che voleva solo tornare a casa dalla famiglia che aveva bisogno di lui o di cui forse non aveva più notizie. Catturato, fu destinato alla fucilazione, con disonore. I detenuti politici ne parlavano, alcuni provavano indifferenza per quest’altra tragedia che si consumava in silenzio: le loro storie erano diverse. Altri, e mio padre tra questi, provavano pena e anche disagio. Pena per un destino comunque miserevole, disagio per la solitudine di quel poveraccio che passava le ultime ore senza neanche la solidarietà di un compagno, senza forse aver capito la ragione di una morte così lontana da casa, dagli affetti. Una morte senza il riscatto degli ideali, una morte che la famiglia avrebbe potuto solo piangere di nascosto, nella vergogna. Una morte così inutile! Qualcuno chiese del cibo per quel disertore che era stato lasciato digiuno; mio padre ne aveva. Da casa gli avevano fatto avere dei viveri, anche troppo per il poco tempo che gli restava. Li divise con il tedesco. Le mani si passarono di cella in cella il pane e un pezzo di salsiccia e così i due condannati, tanto lontani e diversi, divisero l’ultima cena senza vedersi e senza conoscersi, accomunati solo dall’imminenza della morte. Il tedesco fu fucilato, mio padre si salvò e continuò per tutta la vita a pensare con dolore e affetto a quello sventurato sconosciuto per il quale scrisse, anni dopo, i versi che ho trascritto in calce a queste note. Sono ricordi senza odio, velati di sofferenza e stupore, increduli che possa esistere una cosa assurda e innaturale come la condanna a morire mentre il tuo corpo è ancora tanto vivo, e ha fame, e sente, e vede, e la tua anima riesce ancora a commuoversi per il destino di un altro che ti sembra, se possibile, stia peggio di te.
Giugno 1944
Spartimmo l’ultimo pane
e mai ti vidi,
soldato della Whermacht,
e mai seppi il tuo nome;
Johann, forse, Peter, forse, o Franz?
Chiedevano i compagni,
passandosi la voce
di cella in cella,
chi avesse del pane
per un disertore tedesco
portato da poco tra noi
a starci le ultime sue ore.
Ne avevo io.
La dura pagnotta
fu spartita
e in mezzo misi un pezzo di salsiccia del mio podere.
Poi le mani da una cella all’altra
si passarono l’ultima cena
per Johann, forse, o Peter, forse, o Franz?
Disertore tedesco che non conobbi mai,
che mai conobbe me.
Fuori era vespro.
All’ultimo sole
un pulviscolo d’oro
saliscendeva il piancito dove, con agra feccia di vino,
avevamo dipinto una scacchiera.
Si tingeva di porpora
la Rocca Malatesta
e dalla parte del Castellano
di fanciulli in gioconda rissa
e di rondini insieme
acuti venivano i gridii…
Sapevo che io pure
il giorno appresso
non l’avrei visto tutto,
che dopo quel tramonto
per lui e per me
altri non ce ne sarebbero più stati.
Allora mi venne da pensare
che buffa cosa
l’aver spartito
con uno sconosciuto tedesco
l’ultimo pane,
l’ultima salsiccia
del mio podere,
un magro cibo che mai sarebbe stato digerito,
che ormai non ci serviva più.
Luigi Ghidoli
Tutto questo mi ha insegnato mio padre. E molto, molto di più.
Alessandra Ghidoli